Insaziabili sensi [reportage di Silvia Corradi]
Eccolo lì. La stessa camicia bianca a quadri di tutti i giorni, un cappello con visiera abbrustolito dal sole. Mi saluta con un gesto gentile, lo fa ogni giorno. Fuori è caldo e l’estate, ormai al termine, non sembra volersene andare quest’anno. Dall’interno della mia macchina rispondo al suo saluto tra l’aria condizionata e la musica a tutto volume. Non so come si chiami, non so da dove venga ma i tratti del volto e il colore olivastro della sua pelle me lo lasciano facilmente intuire. Sono tornata da poco dalla sua terra, l’Asia. Le sensazioni del viaggio appena fatto sono ancora vive sulla mia pelle e questa mattina mi ritrovo qui, nel suo “ufficio”, un semaforo ad uno dei tanti incroci della grande e frenetica città in cui vivo, la stessa che lo ha inghiottito chissà quanto tempo fa. Avrà qualche anno in meno di me eppure nei suoi occhi si intravede lo sguardo di chi ne ha passate tante, di chi per conquistare quel piccolo pezzo di asfalto lotta tutti i giorni con un compromesso e non sa se potrà mai davvero liberarsene. Tuttavia sembra essere fiducioso e armato di secchio e bastone porta avanti questa sua piccola battaglia personale, premio la sopravvivenza. Semaforo verde, clacson isterici dal retro del veicolo, frizione, prima e mi allontano. La musica è ancora alta in macchina ma è ormai per me impercettibile. Si sente spesso dire che “Il viaggio è nella testa” e credo sia vero. Quando entro nel labirinto delle mie riflessioni e dei miei ricordi difficilmente ne esco viva. È un’esplosione di sensi quella che mi travolge, come se nel mio corpo e nella mia mente in quei momenti regnasse l’anarchia e quando capita è quasi inutile opporsi, del tutto impossibile sfuggirle. Freneticamente mi tocco la fronte, scendo sulle sopracciglia, mi soffermo a massaggiarle quasi nell’intento di scacciare via i pensieri o perlomeno non lasciare che mi inondino ma è inutile. Ci sono già dentro ed il tocco della mia mano premuta forte contro la testa non sortisce l’effetto sperato. Le dita iniziano a formicolare, il palmo si apre e delicatamente sfioro le foglie di una piantina tropicale che, nascosta vicino ad una cascata, si chiude timida di fronte agli occhi di un turista stupito. Al tatto sono esili, fresche di natura. L’energia attraversa le dita ed improvvisamente la mano si apre e corre veloce sulla mia schiena arrivando fino al collo per poi scendere nuovamente lungo la spina dorsale. Ma non è la mia mano. È quella di una donna thailandese di mezza età, di bassa statura e con un sorriso tatuato sul volto. Mentre cerca di estirpare lo stress e le cattive abitudini dai miei muscoli la sento chiaccherare con la collega che lavora accanto a lei, a tratti ridono a tratti commentano ma non posso comprendere ciò che dicono e decido quindi di affondare la faccia in un cuscino che profuma di pulito e di olio per massaggi. Lì, in quell’istante, le narici si aprono e l’olfatto mi guida per le vie di Bangkok. L’odore del cibo cucinato in strada, delle spezie, dei fiori finemente intrecciati in collane ornamentali mi pervade. Poi il gas di scarico di file di macchine incolonnate nel traffico, dei tuc tuc che sfrecciano e impennano veloci nella corsa dei bath, dell’umanità in movimento sopraggiunge violento e mi irrita la gola, respirare diventa quasi difficile. Poco dopo il profumo intenso di centinaia di bastoncini di incenso mi conduce fuori da un tempio dove migliaia di scarpe abbandonate al suo esterno mi fanno pensare che lì dentro ci sia un gigantesco millepiedi intento ad adorare un Buddha ancor più grande di lui. Non molto lontano l’essenza di un mare incontaminato ristagna in un villaggio di pescatori sperduto nell’Oceano Indiano. Gli uomini intrecciano reti stanche e una donna culla amorevolmente un neonato adagiato su un’amaca di fortuna. Nella battaglia dei miei sensi l’olfatto cede veloce il posto all’udito e un barrito di elefante squarcia gli abissi della riflessione. È quello di un elefante nato libero e reso presto schiavo da colui che abita ai “piani alti” della scala evolutiva, o perlomeno così dovrebbe essere. È lo scroscio degli applausi dei suoi simili che scattano foto e lanciano grida di stupore mentre il pennello che tiene stretto nella proboscide graffia la tela e il pallone rotea tra le sue zampe rimbombando tra un palo e l’altro di una rete da calcio shangherata. Poco più lontano, nella foresta, una donna con una chitarra in mano intona una canzone. La sua voce è melodiosa, delicata, ma la pesante collana di ottone che porta al collo strozza gli acuti quasi a non voler disturbare la quiete di un posto che fino a poco tempo prima ricordava essere primordiale. Poi il silenzio, e il mio respiro. I polmoni si riempiono d’aria mentre conto piccole palline di legno disposte in fila come una dentatura perfetta. Espiro continuando a contare cercando in quel semplice ascolto di me stessa il Nirvana tanto decantato. Restando in religioso silenzio apro gli occhi, la meditazione è finita. Lo stomaco borbotta ed è quasi ora di pranzo. È il gusto a volere la sua fetta di torta ora. Mi aggiro per le vie di un mercato locale dove la merce più strana sul bancone sono io con la mia pelle bianco latte, il mio zaino e la macchina fotografica in mano che mangia, scatto dopo scatto, cibi improbabili. Branchi di pesci giacciono esanime su banchi oleosi, frutti multicolore creano perfette geometrie piramidali e caramelle al gusto di coloranti attirano truppe di bambini thailandesi in gita scolastica. Il senso di fame è passato, la macchina fotografica è sazia, i miei occhi lo sono ancor di più. Veloce mi allontano dalla folla. Sento il bisogno di trovare uno spazio tutto mio, di ritagliarmi uno spicchio di terra affollato solo dei miei pensieri e delle mie riflessioni. Chiudo gli occhi, quieto i sensi e mi chiudo in una scatola. Lì, in un lussuoso ascensore di un famoso grattacielo della capitale mi annullo e attendo. È buio intorno a me, i sensi riposano placidi in attesa che il tasto numero 64 si illumini. Un suono simile ad un campanello raggiunge le mie orecchie ormai ovattate dall’altitudine crescente e mi ricorda che devo aprire gli occhi, lasciare spazio alla vista. Le palpebre si aprono lentamente e con loro le porte dell’ascensore in cui mi trovo. “L’uomo è un animale sociale” sosteneva Aristotele e di fronte ad un’esplosione di luci e ad una linea dell’orizzonte così lontana non posso non pensare a quanto questo sia vero. Il quadro che mi ritrovo di fronte è reale, pullula di vita in ogni sua pennellata e in esso ogni singola vita, ogni singola esistenza si intreccia e nel suo raggio giunge fino a me che affacciata su questa immensa frazione di mondo osservo restando bocca aperta. Il viaggio sensoriale è stato lungo nella mia testa, una manciata di secondi nella realtà. Le strade percorse, i sentieri già battuti, le vie d’acqua navigate mi riconducono al punto di partenza, me stessa. Senza rendermene conto sono arrivata a casa, quasi incosciente ed estraniata dalla realtà ho continuato a guidare allontanandomi dalla folla di macchine, dalla frenesia mattutina, dal ragazzo al semaforo e dal suo secchio pieno di speranze. Ho cercato le chiavi nella borsa, ho aperto la porta di casa, abbandonato la posta sul tavolo come il migliore degli automi. Sono stravolta, attonita e felice. Dalla mia camera da letto una valigia semivuota e dall’aria sorridente soddisfatta mi osserva. Se ne sta lì, pronta a ricordarmi che tutto questo è vero, che il viaggio dei sensi nella mia testa è ora realtà ed è parte indissolubile di me. Ancora frastornata mi siedo sul letto facendomi spazio tra vestiti da lavare e souvenir. Sul fondo di quella grande bocca aperta ancora affamata di nuove esperienze, la sabbia degli ultimi passi fatti su una paradisiaca isola thailandese abbraccia al mio sorriso. Il viaggio, quello più lontano e sperduto, quello dall’ufficio a casa la sera, quello della domenica pomeriggio per andare a pranzo dalla famiglia o da un amico, qualunque viaggio, stravolge i sensi e li sazia. Temporaneamente. La nostra esistenza altro non è che un meraviglioso invito nella cena del mondo.
Buon appetito viaggiatori.